07 maggio 2006

rubrica: "TI CONSIGLIO UN CD"

THE STROKES - FIRST IMPRESSIONS OF EARTH


Saranno anche nati nella bambagia, gli Strokes. Questo non significa però che nelle loro vene non scorra vero e sincero rock&roll. La parabola dei cinque di New York è particolare: osannati dalla stampa (europea) prima ancora di pubblicare un singolo, innalzati nell'Olimpo che unisce in un pericoloso legame musica e moda con il loro primo album "Is This It", considerati per un paio di anni i salvatori unici e inimitabili del r&r, hanno visto crollare tutto sotto le proprie All Star disintegrate all'uscita del secondo disco. "Room On Fire" voleva essere diverso, ma non lo era (o non del tutto) e, nello spazio fra il giorno e la notte, Julian Casablancas & Co vennero sbeffeggiati e giudicati più severamente di molte altre band. Se fossero stati dei giovincelli viziati come qualcuno li aveva dipinti, si sarebbero rifugiati nell'ambiente dei loro paria, fatto di polveri di serie A e modelle: così sembra non essere stato. Sì dà il caso che l'habitat naturale degli Strokes sia la cantina del Village trasformata in studio, il posto dove tutto è iniziato. Il risultato di questo isolamento è strabiliante. In poche parole, un vero cambiamento, la svolta cercata dal secondo disco e mai trovata.

"First Impressions Of Earth" è un disco intenso, compatto e articolato, a tratti addirittura difficile. L'importante è non farsi fuorviare dall'opening di "You Only Live Once", rockettino à la Razorlight, che riprende idealmente il filo rimasto sospeso con i dischi precedenti. La sorpresa vera comincia con "Juicebox" in cui, come per un pugno in faccia, si capisce che Julian Casablancas e i suoi non hanno più paura: paura di usare la voce in primo piano (basta, dunque, con gli effetti 'coprenti', tipo megafono o distorsore vocale) e di dare fuoco e linfa alle chitarre, tanto che "Heart In A Cage", a tratti, ricorda sorprendentemente un riff dei Queens Of The Stone Age". "First Impression..." è un album di un'intensità e onestà travolgenti. Mai la musica del quintetto newyorkese era stata così bella e sofferente come in "Vision Of Division", in cui il ritornello urlato di 'How long must I Wait è tanto vibrante da fare male allo stomaco. Tutto, in questi 14 brani è stravolto. Chi l'avrebbe mai detto, per esempio, che in un album degli Strokes un giorno ci sarebbe stato spazio per una suite per voce, mellotron e violocello? Oggi c'è e si chiama "Ask Me Anything", così come c'è spazio per le scale febbrili e vorticose di "Electrycityscape", o per la nonchalance malinconica di "Fear Of Sleep". Affascinanti o odiosi che siano, gli Strokes sono finalmente cresciuti. E con la maturità, si sa, di comunica meglio e si ha meno paura di mostrare lati oscuri e debolezze, che - guarda caso - spesso rendono la musica più degna di essere goduta.